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Circa un anno fa parlando telefonicamente con un’amica ho pronunciato questa frase: “Quello che non serve si lascia andare!” Non ricordo esattamente l’argomento del nostro dialogo, ma quella frase, che l’aveva colpita, è stata postata in facebook. In questi giorni ritrovandolo in facebook, l’ho ripubblicato  nel mio profilo.

Con stupore tante persone hanno risposto: con like e commenti. Diverse sono le riflessioni e domande poste. Tra le varie riprendo questa: “Come si fa a sapere se una cosa è da eliminare? Perché vecchia? Logora?”. Interrogativi molto interessati che aprono, in me, una serie di riflessioni sia su se stessi che sulla ‘carica emotiva’ che attribuiamo a ciò che conserviamo.

BISOGNO EMOTIVO

Quante volte ci siamo detti ‘Lo tengo perché mi potrà servire!’, ‘Questo è il ricordo di quel viaggio!’  oppure ‘Ho tenuto tutti i quaderni e pagelle di mia figlia dalla prima elementare!”. Ciò che tendiamo a conservare risponde ad una esigenza emotiva o al bisogno di colmare un vuoto.  Alla base c’è la necessità di compensare qualcosa di cui spesso non siamo neppure tanto consapevoli. Così cominciamo ad accumulare oggetti di vario tipo riempiendo buste, scatole, cassetti, armadi. Accatastando cartoni in casa che poi finiscono in cantine o soffitte. Talvolta arrivando anche ad affittare box per contenere tutto questo nostro mondo di oggetti.

“COME SI FA A SAPERE COSA ELIMINARE?”

Alla domanda: “Come si fa a sapere se una cosa è da eliminare? Perché vecchia? Logora?”. Non è facile rispondere.  Gettare la pagella elementare del figlio, ormai quarantenne, può significare buttare via quella parte di genitore a cui si è ancora legati. Quell’oggetto rappresenta uno spicchio della storia della persona. Una cosa che ricorda chi sono stata o chi avrei voluto essere. Come una fotografia, magari ingiallita, che evoca un tempo andato dove ero giovane e piena di speranza.

Tenere gelosamente tutto con sé, diventa un must ingombrante che riempie gli spazi sia fisici che psichici. E allora tutti questi oggetti cominciano ad accatastarsi. Talvolta li si nasconde nelle cantine della nostra casa, altre nella soffitta dopo aver vagato per molti anni tra una stanza e l’altra del proprio edificio interiore.

LA CASA INTERIORE

In Psicosintesi, la casa psichica è la rappresentazione della realtà intima e profonda entro cui abitiamo e trascorriamo la nostra vita. Assagioli, il padre della Psicosintesi, ci insegna che l’inconscio inferiore è la cantica di questa ipotetica casa. Qui possiamo trovare aspetti del nostro passato, memorie, istinti, abitudini oltre che complessi, fobie ed automatismi biologici. L’inconscio medio, ovvero le stanze abitate, rappresenta il nostro presente. In esso sono accolti elementi di natura analoga a quelli della consapevolezza di veglia. Ed alcuni dei dati qui stoccati, trascorso un certo tempo, sono fatti affluire nelle segrete dell’inconscio inferiore. Invece l’inconscio superiore, la grande luminosa soffitta, contiene le nostre potenzialità, aspirazioni superiori e i valori che ci accompagnano durante l’intera esistenza.

Stabilire ciò che va eliminato significa scegliere cosa tenere, dove conservare o quando lasciare andare. I criteri a cui fare riferimento, in questo processo decisionale, devono essere definiti dalla persona interessata. Non è appannaggio di nessuno questa determinazione. Se la scelta di conservare oggetti e ricordi non arriva a condizionare la vita, nessun problema. Ma se ciò non è, significa che tale modalità si è trasformata in patologia. Nel 2013 tale tendenza, chiamata hoarding disorder, è stata inserita nella quinta edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders, la bibbia degli psichiatri. Facendola, in tal modo, rientrare tra i disturbi ossessivo compulsivi.

Ciò di cui mi sono resa conto è che la memoria può vacillare. Farci sentire di non essere in grado di ricordare il volto della persona cara che è venuta a mancare, del giorno del matrimonio o della nascita di un nipote. La paura di perdere il contatto con se stessi può farci sentire vulnerabili. E la fragilità ci obbliga a fare i conti con le nostre emozioni e i nostri pensieri. Ci fa da specchio per comprendere che abbiamo bisogno gli uni degli altri e che, presto o tardi, saremo chiamati a lasciare tutto per andarcene Altrove. Quindi io non ho una risposta, ma tante riflessioni che possono accompagnarci per accresce la propria consapevolezza

Storiella Buddista: DUE MONACI E UNA DONNA

In Psicosintesi molta attenzione viene attribuita al processo evocativo. La storiella buddista che segue può essere un utile elemento per sostenerci nel nostro cammino di autoformazione.

Due monaci buddisti lasciarono il monastero per raggiungerne un altro ad un giorno di cammino. Dopo poche ore una violenta tempesta li sorprese, obbligandoli a ripararsi alla bene meglio e ad attendere che smettesse di piovere. L’acqua caduta copiosamente aveva fatto esondare un fiume allagando la strada.

Continuando il cammino in prossimità di una grande pozza d’acqua, i due monaci videro una donna, bellissima e disperata. La donna, che voleva attraversare la pozza, chiese ai due monaci di aiutarla. Il più giovane scosse la testa guardando altrove. Il più vecchio, invece, non ci pensò due volte: prese la donna in braccio e insieme attraversarono la pozza. La donna ringraziò e prosegui per la sua strada.

I due monaci ripresero a camminare in silenzio senza proferire alcuna parola. Il monaco anziano meditava camminando, lasciandosi assorbire dalla naturaIl monaco giovane, invece, aveva lo sguardo basso e sembrava pensieroso.

Solo alla sera, ormai arrivati a destinazione, il giovane monaco ruppe il silenzio e disse con vigore al suo compagno di viaggio: “Non ti sembra sbagliato toccare una donna? Noi siamo monaci, non è forse sbagliato portare una donna in braccio?” Il monaco anziano si prese qualche secondo poi disse: «È vero: io ho trasportato quella donna per qualche metro. Ma tu, figlio mio, l’hai trasportata nella tua testa per tutto il giorno. L’hai portata con te da quando l’abbiamo incontrata fino a questo momento … ed è probabile che la porterai con te anche stanotte!”

In sostanza, accumulare pesi e trattenerli ostinatamente significa ancorarci a pensieri, preoccupazioni, paure ed ansie che si auto generano ingrandendosi. Non solo ingombrando lo zaino che ci portiamo sulle spalle, ma anche appesantendoci e impedendo ogni movimento. Gli oggetti possiamo lasciarli a terra, ma i pensieri no! Questi chiedono di essere ascoltati, compresi e solo dopo … auspicabilmente … lasciati andare. A noi la scelta di tenere o lasciare!

 

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